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Responsabilità enti 231: solo reato penale o sicurezza organizzativa?

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L’adozione del Modello Organizzativo Gestionale esclude la responsabilità, in capo alle società, dei reati commessi dai soggetti in esse operanti. E’ quanto prevede il Decreto 231/01

 

Introduzione: fonti della disciplina

Sono passati ormai quasi diciassette anni da quando il Legislatore nazionale, mosso dalla necessità di rispondere agli impegni presi a livello sovranazionale, ha innovato l’ordinamento penale domestico con il d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (d’ora in poi anche “Decreto” o “Decreto 231”), introducendo la “Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica”.

 

La Legge nr. 300 del 2000, con la quale il Parlamento ha delegato il Governo all’adozione di tale disciplina, mette in evidenza come per lo Stato italiano fosse ormai giunto il momento di adempiere agli atti internazionali e alla normativa comunitaria volti ad imporre agli Stati contraenti la necessità di predisporre gli strumenti giuridici appropriati per perseguire concretamente la lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche internazionali e dei funzionari degli Stati membri dell’Unione europea, oltre che approntare un sistema di tutela delle finanze comunitarie.

 

 

Definizione e natura della responsabilità

Questa normativa rappresenta un armamentario giuridico attraverso il quale lo Stato può attribuire ad un soggetto collettivo, dotato di un’articolazione organizzativa, la responsabilità per un fatto illecito commesso da una persona fisica appartenente alla sua struttura.

 

In particolare l’art. 5, comma 1, del Decreto 231 prevede espressamente che:

L’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio:

a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso;

b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a).”

 

I commentatori hanno molto discusso circa la natura di questo nuovo tipo di responsabilità. Non è un mistero infatti che le opinioni di questi, in origine, avevano caratterizzato due orientamenti contrastanti.

 

Da una parte, infatti, c’era chi propendeva nel ritenere la natura “amministrativa” di essa facendo leva sia sul “nome” attribuito dallo stesso Decreto, sin dal suo titolo, e sia, soprattutto, sulla circostanza che nel nostro ordinamento vige il Principio consacrato nell’art. 27 della nostra Carta Fondamentale secondo cui “la responsabilità penale è personale”.

 

Tale principio veniva meglio rappresentato dal noto brocardo latino “societas delinquere non potest”, cioè dalla consolidata convinzione che le fattispecie criminali e le relative sanzione fossero esclusivamente forgiate per le persone fisiche.

 

Dall’altra, vi era chi riteneva che la pietra miliare della personale responsabilità penale si dovesse ritenere ormai scalfita sulla base di importanti considerazioni riconducibili a due ordini di ragioni: la prima, che il procedimento volto all’accertamento della violazione viene affidato al dominio del Giudice penale, mentre la seconda che le sanzioni individuate a carico dell’ente/impresa sono di fatto così afflittive, tali da dover essere ritenute sostanzialmente “pene”, proprie della logica repressiva/retributiva del diritto penale, anche sulla scorta di parametri individuati da importanti affermazioni di Corti sovranazionali.

 

Proprio quest’ultima è la tesi che è prevalsa, anche alla luce di assicurare all’ente, tutte le garanzie proprie del procedimento penale nel corso delle attività di accertamento (indagini e processo) poste in essere dall’Autorità giudiziaria.

 

 

Sanzioni. Focus interdittive

Le sanzioni, di cui si discute, sono quelle individuate dall’art. 9 del Decreto 231:

  • la sanzione pecuniaria

  • le sanzioni interdittive

  • la confisca

  • la pubblicazione della sentenza

 

Dall’analisi delle stesse emerge come queste, quando vengono irrogate, siano in grado di  produrre un effetto particolarmente invalidante per l’intera struttura organizzativa  tale da gravare pesantemente sul fisiologico proseguo dell’intera attività o, nelle migliori previsioni, in quella parte di essa nel cui settore si è verificato l’illecito.

 

Particolare attenzione meritano le sanzioni interdittive che, come precisato dal comma secondo dello stesso art. 9 del Decreto, possono consistere:

  1. nell’interdizione dell’esercizio dell’attività
  2. nella sospensione o la revoca delle autorizzazioni, licenze o concessioni funzionali alla commissione dell’illecito
  3. nel divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione
  4. nell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi e l’eventuale revoca di quelli già concessi
  5. nel divieto di pubblicizzare beni o servizi.

 

 

I destinatari del Decreto e gli strumenti di esonero della responsabilità

A questo punto è necessario considerare gli “enti” che potenzialmente sono suscettibili di subire queste sanzioni ed evidenziare gli strumenti messi a disposizione dal Decreto 231 per evitare o per attenuare questo tipo di responsabilità.

 

Con riferimento ai destinatari, l’art. 2, nel comma secondo e terzo, è chiaro.

Le disposizioni del Decreto 231

  •  “[…] si applicano agli enti forniti di personalità giuridica e alle società e associazioni anche prive di personalità giuridica
  • non si applicano allo Stato, agli enti pubblici territoriali, agli altri enti pubblici economici nonché agli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale”.

 

Tralasciando i dubbi interpretativi, oggetto di importante dibattito tra gli autorevoli interpreti, circa la necessaria sussistenza del “carattere patrimoniale” dell’attività svolta dall’ente, si deve registrare come le Procure della Repubblica siano inclini a perseguire qualsiasi organizzazione più o meno complessa che abbia natura non pubblicistica.

 

Si deve, infatti, rilevare come ad essere sottoposte a procedimento penale e ad essere condannate ex D. Lgs. nr. 231/2001 non siano solo le grandi imprese aventi veste societaria, ma anche le restanti piccole e medie organizzazioni imprenditoriali e non, i cui soggetti apicali o altri soggetti sottoposti alla direzione e/o vigilanza dei primi abbiano commesso, all’interno dell’organizzazione uno dei reati  c.d. “presupposto” illustrati nel Decreto 231.

 

A titolo esemplificativo e non esaustivo si rammenta come il Giudice per l’Udienza Preliminare del Tribunale di Milano, con sentenza del 22 marzo 2011, giudice Dott. Arnaldi, abbia condannato un’associazione volontaria di pubblica assistenza (a.n.p.a) per il delitto di truffa ai danni dello Stato (ex art. 640, comma 2, n. 1 c.p.) previsto tra i reati presupposto di responsabilità dell’ente dall’art. 24 comma 1 del D. Lgs. nr. 231 del 2001.

 

 

Compiti del PM e catalogo reati

Nel procedimento a carico dell’ente, infatti, è sulla Pubblica Accusa che incombe l’onere di dimostrare che il soggetto apicale o a lui sottoposto abbia commesso uno dei reati presupposto previsti dal “catalogo” rappresentato dagli articoli di cui nella seconda parte del Decreto.

Questo elenco tra l’altro, è costituito da famiglie di reato in progressivo ampliamento come da ultimo dimostrato dall’inserimento dell’art. 25 terdecies ad opera della Legge 20 novembre 2017, nr. 167 che prevede la responsabilità dell’ente anche nell’ipotesi in cui siano commessi i reati di razzismo e xenofobia.

 

Per muovere un rimprovero di responsabilità all’ente, poi, il Pubblico ministero dovrà accertare che l’illecito sia stato commesso nell’interesse o vantaggio dell’ente oltre che a quale categoria soggettiva appartiene l’autore del reato stesso (salvo che l’autore del reato non sia stato identificato, in questo caso ex art. 8 del Decreto 231).

 

Sul concetto  di “interesse” e di “vantaggio” proprio recentemente è intervenuta  la Suprema Corte stabilendo che tali criteri di imputazione non devono essere intesi più solo in senso economico. In particolare, “in tema di responsabilità penale degli enti, l’interesse dell’autore del reato può coincidere con quello dell’ente, ma la responsabilità di quest’ultimo sussiste anche quando, perseguendo il proprio autonomo interesse, l’agente obiettivamente realizzi anche quello dell’ente. Ne consegue che, perché possa ascriversi all’ente la responsabilità per il reato, è sufficiente che la condotta dell’autore di quest’ultimo tenda oggettivamente e concretamente a realizzare, nella prospettiva del soggetto collettivo, anche l’interesse non strettamente economico del medesimo” (Corte di Cassazione, Sez. II penale, 9 gennaio 2018, n. 29).

 

 

Esonero della responsabilità

L’aspetto peculiare del Decreto 231, tuttavia, è la possibilità, data dalla previsione di cui all’art. 6 comma 1, secondo la quale nell’ipotesi in cui il reato sia commesso da un soggetto apicale, l’ente non risponde se prova la sussistenza di una serie di condizioni riconducibili a tre macroaree:

  1. l’adozione di un modello di organizzazione, gestione e controllo (MOGC);
  2. la vigilanza sul rispetto del medesimo, affidata ad un organismo ad hoc definito Organismo di Vigilanza (OdV);
  3. l’elusione fraudolenta del modello da parte dell’autore del reato presupposto.

 

Ai nostri fini divulgativi, è opportuno soffermarsi sull’estrema rilevanza del ruolo assunto proprio dal  Modello. Il MOGC, mezzo mutuato dall’esperienza statunitense dove è conosciuto come “compliance programs”,  risulta essere un indispensabile strumento che manifesta la sua efficace esimente nella misura in cui recepisce e soddisfa requisiti di matrice economica avente carattere organizzativo – aziendalistico.

 

Lo scopo del Modello 231 risulta pertanto essere quello:

  • di prevenire il peculiare rischio d’impresa, nel senso di scongiurare l’insorgenza di tale responsabilità o, in caso di contestazione dell’illecito, evitare che essa sia affermata;
  • ridurre, sotto il profilo sanzionatorio, la responsabilità: se l’ente riesce a dimostrare la sussistenza dei requisiti richiesti potrà, a seconda dei casi, evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive (tranne la confisca del profitto del reato) o vedersi irrogare una sanzione pecuniaria in misura ridotta.

 

 

Considerazioni sull’evoluzione del MOGC e conclusioni

Nel corso degli anni, le imprese stanno assumendo sempre più consapevolezza del vantaggio  di adottare un MOGC e del conformarsi ai relativi adempimenti richiesti dalla Disciplina in esame. L’adozione del Modello inizialmente era vissuto come un costo necessario nell’ottica di tentare di evitare che l’ente venisse trascinato in procedimenti penali risultanti poi estremamente penalizzanti per la prosecuzione dell’attività aziendale o attenuarne l’impatto.

 

Nell’ultimo decennio, tuttavia, l’approccio è cambiato. Esso non appare più un inutile ed inevitabile appesantimento burocratico, ma si è cominciato a vederlo come l’occasione per cambiare approccio all’amministrazione dell’attività aziendale, revisionare la propria struttura organizzativa, integrare i propri sistemi di gestione (con le rispettive certificazioni) e, tra l’altro, i propri sistemi di prevenzione e sicurezza sugli ambienti di lavoro e sicurezza ambientale.

 

L’adozione del MOGC,  e la soddisfazione di tutti i requisiti necessari, consente in sostanza alle organizzazioni d’impresa e non di compiere un’evoluzione di stampo etico, volto a rendere l’impresa aperta ad una migliore, trasparente e lineare posizione sul mercato.

 

Le complesse attività attraverso le quali l’Ente si avvia all’adozione di un modello trovano preferibilmente  origine  nell’elaborazione di un Codice Etico. Esso risulta essere un documento importantissimo in quanto consente di esprimere il proprio sistema di principi e valori capace di permeare l’intera gestione affermando i tratti distintivi e unici della propria identità.

 

In tale prospettiva il coefficiente reputazionale dell’organizzazione non può che trovare sicuro giovamento, non solo in termini di immagine ma anche di possibilità concrete di accesso ad un sistema di “privilegi” derivanti da un maggior vigore della propria Responsabilità Sociale d’Impresa (CSR).

 

Può certamente rappresentare un esempio la circostanza per cui sempre più spesso le Pubbliche Amministrazioni, nel momento in cui avviano le procedure di scelta del contraente, finalizzate ad individuare il soggetto economico con il quale concludere contratti di appalto servizi e forniture, richiedano come requisito di partecipazione che il privato abbia adottato un MOGC o che la sua adozione sia considerata come requisito tale da preferirlo ad un altro concorrente nella fase di valutazione delle offerte.

 

Significative sono le scelte di Regione Calabria (Legge regionale n. 15, 21 giugno 2008),  Regione Abruzzo (Legge regionale n. 15, 27 maggio 2011) e Regione Lombardia (Decreto n. 5808, 8 giugno 2010), di prevedere, come condizione premiale o necessaria, per enti (consorzi, imprese a altro soggetti contraenti), l’adozione di un Modello o di un Codice Etico e la previsione di OdV capace di vigilare sulla loro adozione.

 

Infine, particolare rilevanza ricopre la possibilità per l’impresa di predisporre un modello idoneo, adottarlo ed efficacemente attuarlo nella prospettiva di poter richiedere all’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato (AGCM) l’attribuzione delle “stellette” (che vanno da un minimo di una ad un massimo di tre).

Tale meccanismo comporta per l’impresa il preliminare inserimento all’interno di una “white list” pubblica funzionale a misurare il cd. “rating di legalità”, non solo con  l’indubbio vantaggio in termini reputazionali, ma con la possibilità di accedere a finanziamenti e linee di credito altrimenti più difficoltose.

 

 

In conclusione, Si può ritenere che la possibilità di conformare l’Ente alle disposizioni di cui alla normativa appena tratteggiata, senza pretesa di esaustività, sia da ritenere ormai, non più solamente un costo, ma un investimento necessario per consentire una sana competizione tra i molteplici operatori economici con lo sguardo rivolto verso un orizzonte di obiettivi, libero da controproducenti  irrazionali foschie.

 

Grazie al network di professionisti, possiamo assistere la tua azienda ad affrontare il modello 231 più adatto alle tue necessità non solo in provincia di Lecce, ma anche in tutta la regione Puglia

 

(articolo a cura di Gianvito Rizzini – esperto in modelli Decreto 231 Lecce)

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Redazione

Dottore Commercialista e Revisore Legale Pianificazione e Controllo di Gestione Finanza Agevolata e Crisi d'Impresa Formazione