L’amministratore di una società fallita è penalmente responsabile se non tenta di impedire atti di dissesto compiuti dagli altri amministratori
La Cassazione, quinta sezione penale, con una recentissima Sentenza, la n. 8544 depositata il 27 febbraio 2019, si pronuncia in tema di bancarotta semplice affermando la responsabilità dell’amministratore in concorso nei delitti fallimentari commessi dagli altri componenti del Consiglio di amministrazione.
La vicenda riguarda un presidente (Tizio) del Consiglio di Amministrazione (CdA) ed un consigliere dello stesso CdA (Caio) di una società a responsabilità limitata (Alfa Srl), dedita all’intermediazione immobiliare, condannati entrambi perché ritenuti responsabili della fattispecie di reato cui all’art. 217, comma 1, numero 4, della cd. Legge fallimentare (Regio decreto n. 267 del 16 marzo 1942).
La sentenza in esame prende le mosse da una specifica vicenda che può essere riassunta nei seguenti termini:
- I due amministratori vengono processati e condannati perché nel periodo in cui esercitavano le loro funzioni avrebbero effettuato operazioni tali da aggravare il dissesto della società senza chiederne il fallimento.
- La situazione di squilibrio economico di Alfa risultava essere ben nota ad entrambi in quanto essa si è aggravata anche in ragione dell’affidamento di svariati ed esosi incarichi di consulenza, retribuiti in anticipo, senza che vi fosse stata data prova che le relative attività siano state effettuate a favore della Società.
- Nel corso del processo di merito la strategia difensiva del Presidente del consiglio di Amministrazione, Tizio, cercava di discostarsi da quella dell’altro consigliere Caio sul presupposto che il suo mandato sarebbe cessato almeno sette mesi prima rispetto a quello del collega, in virtù di formali dimissioni, e, quindi, la condotta penalmente rilevante a lui eventualmente riferibile sarebbe dovuta essere circoscritta in un periodo più breve, con la conseguente sottrazione dall’eventuale responsabilità penale per fatti consumatisi nel periodo successivo.
- In realtà la Suprema Corte, in motivazione, chiarisce subito tale equivoco facendo leva sul principio di effettività dell’incarico: Tizio – nonostante le dimissioni – ha continuato, nella sostanza, a svolgere il proprio ruolo di Presidente del CdA. Dai verbali di tale organo infatti, è risultato che lo stesso è stato presente alle riunioni, che ha contribuito a redigere la bozza di bilancio – poi presentata all’assemblea dei soci – e che, quindi, quelle dimissioni non erano mai stata accettate.
Per meglio comprendere il percorso logico giuridico seguito dai Giudici di piazza Cavour occorre tenere presente le norme di legge che gli stessi hanno ritenuto applicabili al caso concreto.
In primo luogo, l’art. 217 legge fallimentare. Questa norma incriminatrice, come noto, rispetto alla più severa norma contenuta nell’art. 216 (bancarotta fraudolenta), punisce i diversi fatti elencati (con numerazione da 1 a 5) in maniera più lieve: la pena è della reclusione da sei mesi a due anni.
In particolare, il caso in esame si riferisce all’ipotesi di cui al numero 4, vale a dire alla situazione in cui l’imprenditore “ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa”.
E’ necessario che tale condotta, affinché sia punibile, venga poi seguita dalla sentenza dichiarativa di fallimento emessa dal Tribunale civile in funzione di giudice fallimentare ponendosi, perciò, quest’ultima come “condizione obiettiva di punibilità”.
Come noto, lo scopo del fallimento, e delle altre procedure concorsuali, è proprio quello di consentire che i creditori dell’imprenditore possano equamente spartirsi il pregiudizio derivante dal tracollo dell’attività senza che la stessa situazione di crisi possa essere l’occasione per alterare i cespiti patrimoniali rimanenti a danno dei creditori e dunque violare la c.d. par condicio creditorum.
Proprio per questo il legislatore ha previsto che ad essere titolari del potere di iniziativa volta a far dichiarare il fallimento sia attribuita a tutti gli attori coinvolti, ossia non solo al pubblico ministero o ad uno o più creditori, ma anche dallo stesso debitore.
Quest’ultimo, infatti, nella veste di amministratore, è il soggetto che in ragione della propria vicinanza alla gestio deve attivarsi per salvaguardare la garanzia patrimoniale.
La sentenza in esame lo afferma chiaramente estendendo, anche alla materia fallimentare, l’efficacia della disciplina civilistica della responsabilità degli amministratori verso la società di cui all’art. 2392 cod. civ.. Il Giudice di legittimità, infatti, precisa che la stessa disposizione “dopo aver sancito al primo comma la necessità per gli amministratori dell’adempimento dei doveri imposti dalla legge o dallo statuto, con la diligenza connaturata all’incarico ne sottolinea – comma secondo – la responsabilità solidale nel caso in cui, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non abbiano fatto quanto in loro potere per impedirne il compimento o eliminarne od attenuarne le conseguente dannose”.
Si tratta, appunto, della responsabilità solidale che viene agganciata dai Supremi Giudici, al concetto penalistico della “posizione di garanzia” il quale trova la sua fonte nell’art. 40 cpv. c.p..
Per unanime dottrina e consolidata giurisprudenza tale posizione di garanzia è rinvenibile in capo a chi, in virtù della propria vicinanza alla fonte del pericolo o per la particolare qualifica ricoperta, ha l’obbligo giuridico di impedire l’evento. Si legge, infatti, che proprio in considerazione dei doveri in capo agli amministratori previsti dal Codice civile, dunque dall’art. 2392 cod. civ., trova fondamento la responsabilità penale “ per omissione in concorso nei delitti commessi da altri amministratori, ex art. 40 cpv, consistita nella mancata vigilanza e nella mancata attivazione per impedire l’adozione di atti di gestione pregiudizievoli”.
Alla luce di tali considerazioni, venendo al caso qui in commento e che riguarda la posizione del Presidente del CdA, la Suprema Corte ha ritenuto che questi fosse responsabile per il reato di bancarotta semplice, in concorso con l’altro consigliere, in quanto avrebbe dovuto quantomeno attivarsi per impedire che il suo collega improntasse e continuasse nella predisposizione di atti sintomatici di una gestione incauta della Società.
Il Collegio, infatti, espressamente ha chiarito che “l’inerzia del singolo amministratore, anche se da sola insufficiente ad impedire l’evento pregiudizievole, nell’unirsi all’identico atteggiamento omissivo – sia esso colposo o doloso – degli altri componenti dell’organo amministrativo, acquista efficacia causale rispetto al dissesto, o all’aggravamento del dissesto, in quanto l’idoneità dell’opposizione del singolo a impedire l’evento deve essere considerata non isolatamente, ma nella sua attitudine a rompere il silenzio e a sollecitare, con il richiamo agli obblighi imposti dalla legge ed ai principi di corretta amministrazione, un analogo atteggiamento da parte degli altri amministratori”.
(a cura dell’avv. Gianvito Rizzini – penalista d’impresa)